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Quarant'anni fa l'omicidio di Giuseppe Fava  In evidenza

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Di Michele Rignanese, 5 gennaio 2024 -

Quarant’anni fa veniva assassinato il giornalista Pippo Fava, direttore prima del giornale del sud e poi fondatore de "I Siciliani", secondo giornale antimafia in Sicilia.

Pippo Fava, un socialista "senza mai tessera", come amò definirsi lui stesso nell’ultimo intervento da direttore de "Il Giornale del Sud", in risposta ad una missiva che inaugurava la rubrica delle lettere al direttore. Fu assassinato alle 21:30 del 5 gennaio 1984, mentre si trovava in via dello Stadio e stava andando a prendere la nipote che recitava in "Pensaci, Giacomino!" al teatro Verga. Aveva appena lasciato la redazione del suo giornale. Non ebbe il tempo di scendere dalla sua Renault 5 che fu ucciso, raggiunto da cinque proiettili calibro 7,65 alla nuca. Pochi giorni prima, il 29 Gennaio del 1983 aveva rilasciato un’intervista alla trasmissione "Film Story" di Enzo Biagi in un discorso che forse gli costò la vita.

Ecco un estratto dell’intervista:

“Vorrei che gli italiani sapessero che i siciliani non sono mafiosi, i siciliani lottano da secoli contro la mafia. I mafiosi stanno in ben altri luoghi e in ben altre assemblee. I mafiosi stanno in parlamento. I mafiosi a volte sono ministri, sono banchieri. I mafiosi sono quelli che stanno ai vertici della nazione. Il problema della mafia è molto più tragico e più importante. È un problema di vertice nella gestione della Nazione ed un problema che rischia di portare alla rovina e al decadimento culturale e definitivo l’Italia. Per il mafioso di una volta, la mafia era una causa. Nella mafia moderna invece, non ci sono padrini, ci sono grandi vecchi che si servono della mafia per accrescere la loro ricchezze, e questo è un dato troppo spesso trascurato. L’uomo politico non cerca attraverso la mafia, solo il potere, cerca anche la sua ricchezza personale, perché da questo deriva il nuovo potere e la possibilità di avere sempre quei  150/200.000 voti di preferenza. Perché purtroppo, la struttura della nostra civiltà politica è quella. La mafia ha acquistato una tale impunità da essere diventata quasi tracotante, le parentele si fanno ufficialmente, certo, si cerca di tenere le mani in alto quando c’è qualcuno che sta per essere ammazzato. L’alibi personale, l’alibi morale ma non credo che ci sia più la paura o la necessità di fare silenzio. Ho visto molti funerali di Stato e credo che molto spesso gli assassini fossero sul palco delle autorità. Tutto parte da un’assenza dello Stato e dal fallimento della società politica italiana. Bisogna creare una repubblica che abbia delle leggi e una struttura di democrazia che eliminino il pericolo che il politico possa diventare succube di sé stesso, della sua avidità o della ferocia o della paura. Tutto nasce da lì, dal fallimento della politica e degli uomini politici, della nostra struttura politica e forse della nostra democrazia così come noi  l’abbiamo in buona fede e appassionatamente costruita e ci si sta sgretolando tra le mani. Dovremmo ricominciare da lì.”

Le indagini sull’ omicidio si conclusero molti anni dopo, numerosi furono i depistaggi e  gli insabbiamenti, inizialmente fu etichettato come delitto passionale, sia dalla stampa sia dalla polizia si  pensò anche ad un movente economico, per le difficoltà in cui versava la rivista. Successivamente, l'evidenza delle accuse lanciate da Fava sulle collusioni tra Cosa nostra e i cavalieri del lavoro catanesi viene rivalutata dalla magistratura. Nel 1993, le accuse del collaboratore di giustizia Claudio Severino Samperi, consentirono di incriminare Nitto Santapaola e il nipote Aldo Ercolano rispettivamente come mandante ed esecutore materiale dell'omicidio. Probabilmente la sua condanna a morte Fava l’aveva firmata quando aveva cominciato a scrivere, perché era il prezzo da pagare per un giornalista libero che aveva sempre detto la verità.

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(Giuseppe Fava_GettyImages)